La Leggenda di Crono

il rospo bufo bufo

Non sono una rana. Anzi proprio questa cosa mi fa incazzare, quando mi dicono che sono una rana. Sono un rospo, un rospo bufo bufo, non un rospo speciale eh, un rospetto comune e vivo sulle montagne tra Lecco e Bellagio, sono marrone, tendente al rossiccio e la pancetta è bianca, ho tante verruche e ho gli occhi d’oro. Ora io non so, per esempio, perché sono più famoso per le verruche da rospo, che per gli occhi d’oro? Che fanno ti fanno schifo gli occhi d’oro? Non ti piacciono? No vengono tutti a contestarmi le verruche, secernono sostanze urticanti dicono e gli occhi d’oro no, che non secernono una sega. Ditemi dieci bestie con gli occhi d’oro. Forza! Ditemele? Il cavallo dagli occhi d’oro? Il serpente? Ecco sì, ma quello è un pezzo di merda, il serpente, io no, sono pure un rospetto pacifico. E forse è per questo, la mitezza, che ti fa ricordare per le tue caratteristiche peggiori. Se sei un pezzo di merda invece, no, ah di quello gli occhi d’oro se li ricordano tutti. No dico, neanche le favole, quella del rospo e della principessa per esempio, che due palle, trita e ritrita, che la principessa lo bacia e il rospo diventa principe. Di che colore ce li ha il principe gli occhi? Forza cercate? Non si sa. La verità è che non lo dicono i fratelli Grimm di che cazzo di colore ce li ha gli occhi il principe. Va da sé che non ha verruche, ma gli occhi? Non potrebbero essere d’oro? No, saranno azzurri, figuriamoci, poi dicono che il mondo delle favole. Che fai vivi ancora nel mondo delle favole? Ti chiedono, come se chi sa che cazzo di mondo fantastico. Poi arriva il rospo che si trasforma in principe per un bacio e di che colore ce li ha gli occhi? Azzurri. Che mi viene l’orticaria solo a pensarci al rospo con gli occhi azzurri. E invece nessuno se ne ricorda, ingrati, una cosa ci ho che è fichissima, gli occhi d’oro, ce l’ho solo io, al massimo qualche serpentello da Adamo ed Eva, da peccato originale, un serpentello stronzo e io invece solo perché sono mite, vengo ricordato per le verruche. E allora m’incazzo, e se permettete ci resto incazzato, che quelle ce le hanno tutti, le verruche, è persino banale una verruca, si opera, si toglie, con la crioterapia, con il laser, fanno male le verruche, se ti vengono sotto i piedi restano per anni e quindi tu del rospo incazzato una sola cosa ti devi ricordare:

ho gli occhi d’oro.

Io sono un abitudinario, per trombare, faccio anche chilometri e chilometri, ma io sempre nello stesso punto mi riproduco, nella fattispecie tra Moregge e Onno, tra Lecco e Bellagio, sulla provinciale chiusa, si quella che finisce sul tunnel tappato, si quello degli scandali, dell’amministrazione controllata della ditta mafiosa, quello che non aprono da trent’anni. Li si tromba di un bene, ma di un bene, che divento d’oro tutto e mi passano anche le verruche e salto come un rospo oltre qualunque ostacolo per arrivarci. Radici di castagno, ruscelletti, montarozzi, statali, macchine parcheggiate e non. Scendo giù crollasse il mondo per riprodurmi proprio là, che ci godo davvero una cifra. E non sono solo io eh, tutti vengono tutti, persino gli umani zitti zitti, che schifo, anche perché poi lasciano in giro carta igienica zozza, preservativi usati, bottiglie di birra, che oh, mo’ voi dite le verruche, che fanno schifo, ma se io proprio devo dire dell’umanità che cosa mi ricordo, beh direi che un preservativo di lattice intasato potrebbe proprio simboleggiarla tutta. L’umanità.

E invece no, vedi, noi rospi dagli occhi d’oro siamo pure democratici, distinguiamo, siamo gentili noi, non ci ricordiamo solo quello, mi ricordo anche i volontari che mi mettono per esempio i cartelli, attenti ai rospi, che spiegano che io trombo e non bisogna schiacciarmi, e mi mettono delle barriere protettive per farmi attraversare nei punti pericolosi, per permettermi di andare a riprodurmi serenamente a Moregge.

Insomma io so molte più cose su voi umani, di quante voi non ne sappiate di me. Che cosa mangio? Eh forza ditemi un po’ di che si nutre un rospo? Io mangio di tutto, tutto quello che mi entra in bocca, insetti, lumache, ma pure topi e questa proprio non ve l’aspettavate eh, abbiate terrore del rospo incazzato, si proprio, ecco se fossi talmente grande, mi mangerei pure un cavallo e non è detto eh che prima o poi non ci riesca. Ve la ricordate la leggenda di Crono, il dio del tempo? Una maledizione gli aveva predetto che un figlio lo avrebbe spodestato. E allora lui stava la e i figli se li mangiava. E sapete come stava la? Come un rospo. Appollaiato sulle zampe posteriori, quando passava un figlio, zac, apriva la bocca e se lo mandava giù. Finché Rea la moglie, non si rompe e decide di partorire l’ultimo figlio di nascosto, Zeus. Il resto se non lo sapete ve lo immaginate, ma io da questa leggenda ho sempre tratto un’ispirazione metafisica. Me ne sto là, all’ombra, tranquillo e quando passa un insetto apro la bocca lento e quello ci casca dentro, se passa un topo anche e se passa il tempo, beh se passa il tempo pure mi casca in bocca e muore. Ecco si io, ammazzo il tempo mangiandomelo.

Ed era così che era successo. Gli elementi ci sono tutti, se foste rospi ci sareste già arrivati, avreste già capito, ma siete umani e in quanto tali limitati poveretti, c’è bisogno che qualcuno ve la spieghi, la storia, da soli non è che ci arrivate. Stavate, voi umani, costruendo un tunnel, a Onno, proprio là dove trombo. Si lì, sulla provinciale tra Lecco e Bellagio, e se quel tunnel fosse stato aperto tutte le macchine sarebbero passate proprio di la, sulla statale che è tanto bella, vuoi mettere tra fare un tunnel e fare la statale? Chiuderti al nero, nel tunnel, correre e farti invece la bella statale con vista lago? Che poi bisogna mettere anche la politica, la società, voi umani non siete semplici. Metti i tunnel che portano da Colico a Lecco, gente che viene dalla Valtellina va a lavorare a Lecco o a Milano, si vuole sbrigare, arrivare presto, duecento chilometri deve farsi: fa i tunnel, non è che si mette a passare per il lungo lago, va via veloce a centotrenta. Ma a Bellagio, che ci vai a fare? Ci vai per turismo, un tunnel da Lecco a Bellagio ti toglie tutta la vista, vuoi mettere che bella la provinciale li, si insomma non c’è storia, se vai da Lecco a Bellagio il tunnel lo fai solo perché devi, altrimenti ti fai il lungo lago.

Solo che lì sul lungolago, io ci trombo!

E le macchine mi scassano la minchia. Oooh e diciamola questa verità. Diciamo le cose come stanno e quindi quando si è trattato che i lavori erano quasi finiti, i lavori che allacciavano al tunnel la statale e che avrebbero permesso di uscire sul tunnel arrivando direttamente a Bellagio. Si insomma quando stavano per aprire lo sbocco della provinciale sul tunnel, ho indetto il gran consiglio dei rospi, ho convocato tutti i rospi scopatori e ho detto solenne: oh, qua si rischia che non trombiamo più.

NOOOO rispose un coro da stadio.

Erano tutti preoccupati. Il problema era che non è che ci venissero grandi idee, passavano gli insetti, ce li mangiavamo, passavano i ratti e pure quelli ci mangiavamo, trombavamo, ma non è che ci venissero grandi idee. Pensa che ti ripensa, la preoccupazione saliva, tanto che anche a trombare c’era meno gusto. Un incubo. Insomma ad un certo punto arrivò un rospone, ma un rospone, gigantesco, talmente grosso che faceva proprio fatica ad atterrare, nel senso che saltare saltava, ma poi ogni volta che atterrava tutti i rospetti si dovevano togliere, perché se gli finiva sopra li avrebbe spiaccicati. Aveva degli occhi d’oro fosforescenti rame, aveva delle verruche nobili e bellissime come Geyser finlandesi, aveva una lingua prensile velocissima, una pelle anfibia di una morbidezza vellutata, che lo faceva respirare in qualunque posto, si insomma un superrospo della madonna, un dio rospo, un oracolo di delfi, Crono stesso risorto. Insomma quando i lavori del congresso dei rospi stavano per finire Crono il rospo parlò:

“È la pioggia, disse Crono il rospo, che fa passare il tempo. Se una goccia di pioggia colpisce la terra, il tempo passa più veloce, ma se la goccia di pioggia non colpisce la terra il tempo si ferma.”

E se ne andò saltando pesantissimamente a morto, dong dong dong, e sparì.

Noi rospetti comuni ci guardammo e pensammo che era proprio un pallone gonfiato sto rospone gigante e chi sei Gesù Cristo? Uno si era messo pure a ridere, ma insomma, noi continuavamo a non avere idee e in quel momento, iniziò a piovere. C’era in alto sulla strada, sopra l’imbocco della congiunzione col tunnel, una rupe bianca, la vedevamo, che incombeva sulla strada e faceva ombra. Su questa rupe, guardarla da sotto non lo vedevi, ma da sopra, ah da sopra era proprio imponente, da sopra si vedeva chiaramente che su quella rupe bianca, ci si era posato Crono il rospone divino. E ogni volta che apriva la bocca, una nuvoletta puff, gli entrava in bocca e spariva lasciando solo un vago residuo bianco nell’azzurro del cielo.

In pratica il rospone si mangiava le nuvole prima che diventassero acqua, prima di toccar terra, prima ancora di farsi tempo e fu così in realtà, che su quella provinciale, sotto a quello spuntone di roccia bianca, il tempo si arrestò.

E te lo ricordi quando hanno dichiarato la zona a rischio frana? Beh quel giorno il rospone gigante si era mangiato una nuvolaccia nera, se l’era succhiata che faceva le bollicine e la schiuma tipo Bonarda. E quando hanno arrestato l’assessore corrotto? Ah quella era una nuvola rossa di tramonto, violetta, consistente al palato, un po’ giovane bisogna dire, allappava. Poi c’erano state annate fenomenali però, tipo l’ottantadue un’annata asciutta di suo, inverno secco, estate mite, ne era venuta fuori una nuvola buona, ma talmente buona, giallina, con un perlage mistico e costante, un gusto secco, talmente elegante che avevano proprio sciolto per mafia l’intera giunta comunale.

E così sono passati trent’anni.

Fermi eh, tranquilli, trent’anni d’inerzia totale, trombate divine, un periodo proprio indimenticabile, la gente sotto manco cambiava le automobili, tutto restava fermo, certo qualcuno moriva, ma non era una questione di tempo quella, quelli sarebbero morti comunque, la morte non è un problema di tempo, si muore a prescindere, si muore e basta sia che il tempo passi, sia che non passi, bloccato o no, si crepa, magari anche solo di un raffreddore o del super bacillo resistente ad ogni antibiotico.

Però c’era un però e ce ne siamo accorti però solo dopo, che con il senno di poi. Santa pazienza. Sto rospone gigante faceva poco movimento, non si teneva in forma, stava la sulla rupe bianca ed era sempre ubriaco. Sempre più grasso, le verruche geyser sputavano fuori alcol, aveva un fiato pestilenziale, non si riusciva proprio più a muovere che gli girava la testa e quando ruttava, madonnina bona, bisognava correre via, era nucleare, altro che erbacce, se ruttava lui, non cresceva proprio più niente, niente piante, niente radici, manco la gramigna, la terra si faceva sabbia, sasso, pietra.

E insomma un bel giorno ci accorgemmo che le nuvole si addensavano, sempre più spesse, sempre più rosse, poi grigie, poi nere e quello, Crono, il rospone gigante, niente, non apriva la bocca, non ce la faceva più, era satollo, ubriaco marcio, gonfio come un uovo, non ci stava dentro più manco una zanzara. E le nuvole erano sempre più gigantesche e iniziò a piovere. Una scena comica nella sua drammaticità. Capimmo eh, noi rospetti comuni, corri corri, capimmo tutto in un batter d’occhio d’oro. E ci mettemmo a scattare, di qua e di la, con la bocca aperta, e aprivamo la bocca, e raccoglievamo tutte le gocce, appena arrivavano ci spostavamo per prendere quella dopo, sempre più veloci e sempre più ubriachi, e poi iniziò a grandinare e noi sempre li, a bere granita a canna dal cielo, schizzando a destra e sinistra come girini impazziti, ma niente non ce la potevamo fare e il rospone gigante stava là e si bagnava e non faceva niente, teneva la bocca chiusa quel fetente. E la pietra sotto di lui si bagnava, si bagnava talmente e non si riusciva a far nulla, la terra si imbeveva di acqua e più s’imbeveva, più sotto il peso di Crono, il rospone gigante, cedeva, si smottava, faceva crepe, piccoli rivoli di sassolini cominciarono a colare giù e poi, poi ah poi. Poi il cielo biblicamente si aprì e un fulmine colpì Crono il rospo gigante e lo seccò di colpo. Una scena apocalittica, tutta l’acqua che aveva dentro o forse era vino, insomma vabeh tutto sto liquido nero, fetido, puzzolente, marcio, semidigerito, tutto sto tempo bloccato, uscì dal rospo bruciato dal fulmine e tirò giù lo sperone bianco e lo fece rotolare nel lago portando via tutto, le barriere di cemento, i preservativi usati, i cartelli nostri, i graffiti, ricoprendo tutto con una scia nera disgustosa e puzzolente.

Trovammo Crono rinsecchito e bruciato, secco e piccolino, sgonfiato nel fango e così, d’un tratto, il tempo ricominciò a scorrere. E pazienza, ci dovremo trovare un altro posto per andare a riprodurci.


L'imbuto


1)

C’era un ristorante pulito. Lo teneva una vecchia signora. Cucinava sempre le stesse cose. Gli spaghetti al sugo, la frittata col sale, la fettina. Piatti così, alla buona, i tavoli erano vecchi, quadrati, con la tavola di marmo, indistruttibili, avevano pensato lei e il marito morto buonanima, quando li avevano comprati che avevano vent’anni, che chi sa, che non si dovessero cambiare mai. Perché un tempo era così, tu compravi una cosa per tenertela tu, mica per cambiarla se non piaceva agli altri. E così c’era il bancone e pure quello era indistruttibile e c’era il pavimento fatto con le mattonelle di marmetto a macchie come voglie e lividi e soprattutto c’era la vecchia che puliva, passava la cera, lavava tovaglie di lino spesso, stirava. E lei se lo diceva da sola che era vecchia, ma insomma se ci andavi la pasta la faceva e la fettina anche o la frittata. E quando lo avevano aperto il ristorante, col marito, erano finiti lì che la strada stava per aprire, trent’anni prima, e stavano facendo i lavori e sicuramente, con tutti i turisti del lago, le moto, le macchine, gli alberghi, si insomma era un posto proprio bello, da aprirci un ristorante e sognare di rimanerci una vita, che tutto può davvero andar solo bene.

Ci stanno posti così, che restano in bilico per sempre, su di una strada sperduta, che in un qualche momento era stata anche bella. La provinciale che va da Lecco a Bellagio, tu giri che segui la strada costiera, c’è una cava di ghiaino, due balere, qualche casetta, strapiombi di pietra su a monte. E poi finisce. Finisce su di un tunnel che non hanno aperto mai, chiuso, dove i rospi vanno a riprodursi, ci sono i cartelli, attenti a non schiacciarli, i rospi. E i bar con pochi avventori, gente del posto, gente che fa il pic nic anni coi tavolini piegabili con le maniglie che sono una striscia spessa di plastica per portarli. Con le sediole di metallo e tela plasticosa a strisce rosse e blu. Con l’ombrellone dell’algida. Persino la luce è diversa, una luce luminosa, troppo rossa, come una foto d’altri tempi: avanzata e scordata. Ecco sì il ristorante della signora era così: avanzato e scordato, come una corda sola su di una chitarra.

La vecchia abitava lì, puliva, cucinava, il ristorante era il suo, tavole e sedie indistruttibili, la terrazza con l’ondulato di plastica verde a far da tettoia e un tempo infinito, in cui manco cambiano i modelli delle macchine intorno, macchine vecchie con colori vecchi, un verde militare slavato, i parafanghi cromati e arrugginiti, specchietti col rosario, macchine che si cambiavano solo come grande avvenimento (usata eh), che tipo gli fai la foto se succede e brindi, stappi una bottiglia di spumante. E la cava di ghiaino era chiusa e i macchinari arrugginivano e giù in fondo, dove si riproducevano i rospi, avevano fatto dei graffiti e c’era nella sterpaglia carta igienica sporca e dei falò spenti, bottiglie di birra, quella roba là. E c’era una grande rupe sul tunnel, a strapiombo, una sporgenza di sasso che faceva ombra, tanta ombra e che era di sasso chiaro, alta e incombeva, faceva ombra.

Perché lì su quell’imbuto di strada, su quei grafiti che avrebbero portato al tunnel, si era fermato il tempo, quando tutto era rimasto così, inconcluso. A un certo punto, nessuno ricordava esattamente, un qualche geologo del comune, un qualche perito, un sindaco aveva dichiarato inagibile il tunnel e che era a rischio frana. E quindi prima le scavatrici, i martelli pneumatici, gli operai col casco giallo, si erano solo fermati. Poi avevano portato via tutto. Poi se ne era parlato sui giornali, rischio frana titolavano, rischio frana, miliardi di investimenti necessari, per mettere in sicurezza il territorio, miliardi stanziati, la comunità europea, i finanziamenti, poi c’era stato uno scandalo, avevano arrestato un po’ di gente, poi era partito un processo, poi la ditta appaltatrice era mafiosa, poi era partita la riassegnazione della gara al ribasso, poi era morto non so chi, era cambiata la legge, avevano fatto la superstrada in un posto diverso, ma totalmente, che non c’entrava e chi sa perché era un problema.

Fatto sta che il tempo si era fermato.

E sarebbe bastato rimuovere le barriere di cemento, una giornata al massimo di lavoro, per farlo ripartire, il tempo e invece erano anni che era fermo. In un imbuto tappato, occluso. Come un buco nero di storie, come un’eclissi di pianeti lontani che si allineano e fanno ombra, un’eclissi su misura di quella strada e della vecchia che stava la e puliva e ti guardava e ti faceva la fettina del duemilasedici, che vorrei vedere, contarli, quanti ristoranti hanno in menù la fettina, nel duemilasedici. Che se dal basso marketing proprio ci penso, una fettina, buona, presa dal macellaio di fronte, salata il giusto e trovata in un osteria eterna, beh, li vale tutti i soldi che può costare.

E comunque a questa signora era rimasto un solo cliente. Se n’erano andati tutti, magari venivano a bere un bicchiere, a sedersi in terrazza, ma proprio a mangiare sempre, da dire “è cliente”, c’era solo questo. Che abitava nel pensionato di fronte ed era l’unico che ancora poteva uscire. O comunque era l’unico che dal pensionato usciva e attraversava la strada per andare da lei. Il pensionato era come la cava, un silos enorme arrugginito, i cingoli di trasporto fermi sollevati a mezz’aria, ombre secche di polvere l’estate, spettrali da Far West e indiani la notte: quell’atmosfera là. Il pensionato aveva le imposte bianche scrostate come pure gli infissi di legno, una scritta fascista coperta a metà dalla calce. E questo signore si vestiva, si metteva la camicia pulita, la cravatta, la giacca marrone, usciva da lì, attraversava la strada e andava dalla signora tutte le sere a cena verso le diciotto. Si sedeva zitto, ordinava una volta la frittata, una volta la fettina, mangiava silenzioso, pagava e zitto se ne andava. La signora andava, lo guardava, gli si avvicinava, non lo salutava, alzava un sopracciglio, prendeva l’ordine, andava piano in cucina, cucinava o la fettina o la frittata, glie li portava, zitta incassava e piano lo lasciava andare via. E la vecchia non sapeva, ignorava, che quel signore lì, non poteva proprio sentire i sapori di quel che lei gli cucinava, sì insomma gli mancava il gusto. Era successo tanti anni prima, prima ancora di finire al pensionato, ad un certo punto quando la moglie era morta, buonanima, lui aveva smesso di sentire gli odori prima e i sapori poi, per caso, per stanchezza, per vecchiaia aveva pensato, per lutto, sulle prime non s’era manco accorto poi era stato dal medico, ma non aveva avuto voglia di fare la coda all’asl, prenotare le visite, pagare il ticket, prendere la macchina per andare a farsi vedere, aveva lasciato semplicemente perdere e invece poi un giorno era venuto al pensionato, qua. Nell’imbuto.

2)

Un bel giorno la fettina era un po’ più dura del solito, e c’era un nervetto, e forse l’avventore non aveva masticato bene, non importa, fatto sta che un pezzo di fettina gli andò di traverso nella trachea: tossisci di qua, tossisci di la, bevve un goccio d’acqua, ma pure quella gli andò di traverso, che quasi si spaventò, coll’esofago bloccato, che proprio non sapeva che fare, tossisci di su e tossisci di giù, non respirava e la vecchia gli diede una botta sulla spalla con la mano piatta e veloce e questo pezzo di fettina finalmente risalì sparato come un proiettile, uscì dalla gola dell’avventore e penetrò su per il palato nel naso, dal didentro, il signore era paonazzo, la vecchia non smetteva di battergli sulla schiena, anche se a quel punto il signore si mise a respirare con la bocca e a starnutire ferocemente a bocca aperta spandendo a pioggia la saliva e pezzi vari di schifo sul vestito rosso di lei.

Pioveva già da un paio di giorni, a dirotto, l’acqua scendeva a rigagnoli dalla montagna, per i fiumiciattoli, nei canali di scolo, per i boschi, formava torrentelli e pozzanghere portando giù foglie di castagno marroni e secche dell’autunno prima, ramoscelli, terra che l’inverno era stato secco, sereno e mite. E tutta quest’acqua riempiva gli scoli lungo i marciapiedi entrava nelle piante, scolava dall’ondulato verde di plastica, scrosciava sul selciato. E mentre l’avventore tossiva, bloccato da quel pezzetto di nervo di fettina infilato nel naso, iniziò a grandinare, ma proprio con pezzi di ghiaccio grossi come biglie che rimbalzavano a terra e si spaccavano in mille pezzettini più piccoli, tipo bicchieri in frantumi e quando al signore colavano le lacrime dagli occhi, si sentì un tuono, un rollio, un’esplosione, un rumore, ma un rumore tanto immenso, una diavoleria, un rumore d’apocalisse, come se i pianeti dell’eclissi invece che coprirsi l’uno con l’altro si fossero scontrati, un rumore talmente immenso che si pensò che il container arrugginito della cava fosse crollato oppure una casa intera, il palazzo vicino, una bombola di gas esplosa, si pensò ad una tragedia.

E finalmente tra uno starnuto e un colpo di tosse, la signora vide che dal naso dell’avventore usciva da dentro, un pezzetto di quel nervetto che prima gli era andato di traverso in gola, poi era risalito dal palato ed era finito nella narice destra e con enorme sangue freddo lo prese tra indice e pollice e tirò, lo estrasse che sembrava un mollusco, un verme lungo prima lucido e trasparente, viscido che però poi si allargava grigio e masticato, verde e smoccoloso come una lumaca, con tutta quella pioggia, che gli si era infilata su per il naso a nascondersi con le antenne ben dritte a far radice in fondo al naso. Una roba da fare proprio schifo, che la vecchia aveva tra le dita e che con noncuranza buttò nella spazzatura per poi pulirsi le mani sul grembiule.

Liberato, l’avventore la guardò con riconoscenza, ma non riusciva a parlare, bevve e l’acqua per fortuna non gli andò di traverso, bevve ancora e fu sempre meno rosso, respirava ora, respirava quasi normale, si stava calmando, anche le orecchie da rosse si erano fatte bianche e la fronte, che era tutta grinzosa s’era distesa e alla fine guardò la vecchia, le sorrise e disse (pausa) che era tutto a posto madonna santa, grazie, eh grazie, (singhiozzo) grazie proprio signora cara. Ah, che spavento, disse la vecchia, che spavento, madonnina mia, ma proprio pensavo che. E poi quel fracasso di fuori, ha sentito che roba? Eh ma adesso dobbiamo andare a capire che è successo, che cosa mai sarà crollato. Aveva smesso di grandinare, grosse gocciole colavano dalle foglie degli alberi, dai balconi e una pioggerellina fine avvolgeva tutto. Lui si alzò dal tavolo, si pulì ancora con il tovagliolo, arrivò alla soglia, alzò gli occhi al cielo, mise una mano fuori col dorso, prese un ombrello, lo aprì e le offrì il braccio, lei ci si infilò quasi con delicatezza, con grazia compiaciuta, con una mossa comunque di slancio quasi giovanile. Gli si appese appena stringendogli il gomito e così andarono a vedere.

Era buio. Il silos della pietraia era li, in ordine nella penombra, anche i vecchi rulli coi cingoli arrugginiti luccicavano e non si erano mossi, i cumuli di ghiaia erano sempre li, grigi, neri, umidi e lucidi, come al solito. Guarda di qua, guarda di la, boh, tutto sembrava in ordine. La vecchia e l’avventore sempre sotto braccio, andarono avanti, passarono davanti ai cartelli che raccontavano la storia dei rospi, passarono davanti alle balere, davanti alle vecchie macchine parcheggiate in fila. Ma ecco che in fondo, proprio in fondo, videro nel lago un’ombra nera, come di una montagnetta scura. Nuova. Uno sperone nell’acqua che non c’era mai stato prima. C’era vento. La luna piena occhieggiava dietro alle nuvole che andavano e venivano e non è che si distinguesse bene. Si avvicinarono ancora e ancora, piano piano, sempre guardando la montagnetta nera, e c’era un forte odore di melma e acqua sporca. All’improvviso sempre avvicinandosi cogli occhi verso il lago, a cercare di capire, misero i piedi in un fango nero e lucido e puzzolente e fluido e si voltarono e guardarono indietro, non verso il lago, ma guardarono in su verso la montagna e

Meraviglia delle meraviglie

Una frana, una frana gigantesca aveva staccato la grande rupe che prima faceva ombra, che era rotolata giù e aveva spazzato via coi detriti di fango e terra e sassi e foglie vecchie di castagno e aveva portato nel lago tutto, ma proprio tutto, i recinti coi graffiti, le barriere di cemento, i cespugli incolti, le carta igienica sporca, i falò spenti, tutto, tutto, si insomma una frana gigantesca e precisissima che come per miracolo aveva strappato via tutto. Aveva sturato l’imbuto.

La vecchia e l’avventore erano increduli, mai niente era successo in tutti quegli anni, gli scandali, i giornali, i processi, le storie infinite degli uomini, quelle loro e mai niente succedeva e poi un bel giorno. Tjeh, ma guarda un po’, ma che bella, ma che grande notizia. Sorrisero. Si guardarono. Si misero a ridere, a ridere sempre più forte, a ridere a crepapelle, se la ridevano, se la ridevano proprio di gusto, e guardavano, ispezionavano il posto, sempre a braccetto, lei gli stringeva quel suo gomito al seno, arrivavano fino al tunnel stappato, sturato e si vedevano passare le macchine, c’erano i fari, no dico, ti rendi conto, si davano del tu, i fari, che ridere. E così sempre giù ridendo e raccontando di tutto quel tempo bloccato, tornarono indietro a braccetto sotto l’ombrello anche se aveva davvero smesso pure di piovigginare. E quando arrivarono lui le aprì la porta, lei entrò e lui chiuse poi l’ombrello prima di entrare scuotendolo e strofinando i piedi sullo zerbino e disse che ora aveva davvero, aveva proprio una fame da lupo. E lei allegra andò via, in cucina, gli fece la fettina sorridendo tra se e glie la portò tutta contenta. E invece di andarsene come al solito, stette li a guardarlo mentre portava alla bocca il primo boccone.

E lui divenne tutto rosso, strabuzzò gli occhi, fece una faccia stranissima, buffa quasi, masticando, poi si fermò, arricciò le labbra e poi rimasticò e poi passò la lingua sul palato e sulle labbra arricciate e di nuovo e ancora più forte di prima scoppiò fragorosamente a ridere. Ma a ridere a crepapelle, ma proprio che non gli finiva più, giù a ridere con i lucciconi agli occhi, che dagli occhi scendevano, rotolando fino alle labbra e la lingua che allora ogni volta li andava a prendere con la punta quando quelli gli rotolavano giù dalle guance. E lei pensava che stesse male, ma lo vedeva ridere e un po’ timidamente rideva con lui, per trasporto, per partecipazione, per simpatia e lui non la smetteva di ridere e poi si alzò, si calmò appena, ah, cercò di calmarsi (deglutì) e le disse, tirando su col naso, sai che c’è?

Sono salate! Le lacrime sono salate! E la tua fettina è buonissima, buonissima, ha sapore, un sapore incredibile. E lei lo guardava e non capiva e un po’ rideva con lui e lui la guardava come se fosse chiaro no, chiaro che lui aveva appena recuperato, dopo vent’anni e passa, aveva recuperato il gusto, si insomma che sentiva i sapori e pure gli odori e invece lei lo guardava senza sapere che dire, con le mani impacciate sul grembiule e gli occhi spalancati e increduli. E lui capiva che lei non capiva e non sapeva come fare, che quasi il cuore gli scoppiava per la felicità e allora semplicemente, per spiegarle tutto: la baciò.