La Scala


Personaggi e interpreti:
Il fantasma: Marco Gandini Alessandria, 1894 – Torino, 1968, compositore-pianista, padre del pittore.
Il pittore: Marcolino Gandini, Torino, 1937, pittore, padre del visitatore.
Il visitatore: Tito Gandini, Roma, 1972, scrittore.
La Scala: Scala, Roma, 1940.


Via Simone Mosca 91. Vista da satellite un grumo di piante ed una casa rossa. Ad arrivarci davanti c’è un vialetto di pergolato con un portoncino verde. Il citofono dice Gandini, qui sono cresciuto.
La casa è vuota. Al fresco in penombra i quadri bisbigliano, bisogna che l’occhio si appoggi a quell’evaporazione di luce. Tre piani di scale e cantina, ad ogni gradino un quadro, come un inciampo. Pensavo da piccolo che in cantina ci fosse un lupo, io avevo scalini d’anticipo, se ero solo correvo al piano di destinazione. Giù nel buio si scende in cantina, a piano terra una porta, una rampa, poi su la prima sorgente di luce, pianerottolo sulla finestra, tre gradini ancora, primo piano, poi rampa, altro finestrone, pianerottolo, rampa, secondo piano. La scala è del 1940, si sente nell’aria come un odore: un umido che sale dalla cantina, un buio che dalla terra evapora in luce.
In penombra i quadri hanno verdi e marroni di un bosco che ho visto notturno: passeggiata lunga, avevo sbagliato il tempo del ritorno; fatto sta che in montagna gli alberi hanno sparso l’umido grigio per l’aria, il fosco s’è appeso a ogni ramo e di rosso in più rosso se n’è scesa la notte. Eccomi dunque nel bianco sterrato a cercare le ultime tracce del giorno. Il bosco la notte mette paura, anche da adulti c’è sempre quel lupo. Si accelera il passo, ma le gambe fan male e il buio t’accerchia, i tronchi dei pini diventano bianchi, non si sa se sia luna o tramonto st’argento attaccato ad ogni spavento.
Al piano terra, dopo la rampa più buia, un azzurro sommesso ed immenso di quadro m’annuncia che sono uscito dal bosco. Non era dunque luna quel bianco di tronco, l’argento era davvero l’ultimo sole violaceo che ancor roseo degrada sul bianco sfinito del Vioz.
Ad essere quadri in penombra ci vuole mestiere, bisogna affiggersi all’occhio e sostare, impregnare ogni dove come un odore, ci vuole mestiere a non imbrunire, a tenere nel tempo l’azzurro, il verde e il marrone, come un tasto di piano sfiorato, che deve davvero attraverso l’udito emetter quel suono pianissimo eppur sostanzioso che soffi sull’anima come un rimorso.
Si sale. C’è luce. I quadri esplodono in giallo, di verde, di rosso, ad ogni scalino si accelera il passo. Lo stretto s’allarga, l’umido ottuso che prima opprimeva, si sgrana di fresco, l’occhio s’abbaglia di blu, rossarancione: la ringhiera si srotola in su.
Di nuovo in montagna, dal bosco si sale e gli alberi diventan cespugli,da dietro un crostone si sente che il sole sta per spuntare, eccoli già i laghi freddissimi e verdi, la meta di quel camminare, che il sole, sconfitto il crostone, sta per scaldare.
Ecco prendiamo quel verde di lago, gelato di freddo d’inverno, forse persino imbiancato a gennaio. Vediamo il processo, vien marzo e la neve si scioglie, sì ma allora? Il bianco diventa verde di colpo? Se il lago era ghiacciato e coperto di neve, quel bianco si scioglie, il verde quando lo vedo? Lo vedo a febbraio? Quando lo vedo quel verde? Lo vedo un mattino? E cosa fa, si mescola al bianco? Duro mestiere il mestiere di quadro, anche quando non è in penombra, il quadro ti deve spiegare quando lo vedi quel verde e perché. Il quadro ti deve dire che il bianco di neve e poi ghiaccio si scioglie, e che il verde sorge dal bianco come un chiaro di luna sul cupo. E il quadro questo lavoro lo deve far sempre, che faccia chiaro, buio, che fuori sia sole oppure sia fosco.
E in queste scale ogni bianco, seriale, inclinato annoda il tessuto dell’essere luce fin dentro ogni grano di quel ch’è buio solo se crepi (nel senso comune dell’essere quadro): nel neon, nel rumore. Se si chiude un uomo per mesi nel buio, poi lo si espone a luce e rumori fortissimi, poi lo si rimette nel buio per mesi, impazzisce: una tortura sviluppata e praticata dagli americani. L’estremo occidente della nostra cultura. Duro mestiere il mestiere di quadro: si batte contro la sua stessa cultura.
La scala di casa ha due solidi triangolari, uno di luce, uno d’ombra, la luce in alto, l’ombra in basso, s’incrociano obliqui sul rosso ringhiera, il buio spinge verso l’alto, un buio lupo che incute timore. Ma l’uscita è proprio lì nel buio e bisogna scendere.
A scendere si va giù veloci, come in un sogno, quattro a quattro, otto a otto, le pareti perdono perpendicolarità. A scender dall’alto ci si avvita a girare, di quadro in colore, rumore, frazione. Tutto vortica caleidoscopico e i colori ad ogni scalino raccontano quello di cui sono impregnati. E allora certo i boschi, i laghi, il vento, la penombra e la luce, il quadro racconta della ragione del suo essere quadro. Ma poi una volta che il quadro è appeso, il quadro si emancipa dal pittore, diventa oggetto che informa la vita d’intorno e la racconta: abbiamo sempre appeso noi per esempio dei quadri non venduti.
E allora la scala di casa cosa racconta? Racconta che un quadro bellissimo non è stato venduto. Non tutti i quadri invenduti vengono appesi, solo quelli più belli, un po’ perché la scala è la vetrina di casa, ma tanto perché ci si domanda, che sbaglio contiene un quadro così per rimanermi addosso? E questo domandarsi non è compiacenza, un dirsi che bravo e incompreso che sono (certo a volte è anche questo), ma è un porsi la domanda, capisco io quel che sta in giro? Capisco le macchine, la gente, il duemila? E la risposta non c’è, s’avvita su se stessa, dal chiaro al più scuro in discesa, dal buio alla luce in salita. S’avvita su e giù per le scale.
E più si sale e si scende, ad ogni scalino si mette un passo, ad ogni piano un respiro, ad ogni giro un colpo diverso dell’occhio, più ci si accorge di essere soli. Soli a salire con la fatica che ogni volta si fa, soli a scendere, soli a guardare, a pensare, a vedere, solo è l’occhio ad abituarsi alla luce, soli a domandarsi, soli ad assolversi e a condannarsi. Su e giù per le scale come un pianista. Come un pianista, ad ogni tasto-scalino un colore, in basso i bassi, in alto gli acuti, il buio,la luce, il diesis o no, come un pianista che studia le scale e si assolve se compie un errore. Un pianista che pensa a chi gli ha insegnato a suonare, a chi proprio adesso dovrebbe ascoltare e invece non c’è.
Ad un quadro resta addosso chi avrebbe dovuto vederlo e non ha fatto a tempo. Fantasmi certo di gente che c’è stata, padri e maestri, ma anche fantasmi di gente che ancora non c’è: i pronipoti, il pubblico che certo verrà. Colori appuntamento.
Pensare non è questione di pubblico, un pianista pensa a Bach e dice chi sa se mi sente suonare, pensa al maestro sepolto anche lui, pensa all’amico lontano, pensa ai figli partiti, per cui suonava quand’eran piccini, un pianista non guarda le foto, non si fa nulla del ritratto di Bach, si perde dietro alla fuga che suona, una fuga su pezzi di scale, si ferma sul mi, ritorna sul do, si ferma a guardare un colore minore, ricorda un momento una madre, rallenta e poi scappa di nuovo, in discesa per sempre, nove gradini alla volta, come in un sogno nel quale si scappa, si scappa e si torna a salire: una fuga da un lupo che suonando t’insegue, un lupo buio, cattivo e maligno: lo spettro perenne dell’inutilità.
Per le scale si è soli, si passa uno alla volta e se c’è un pubblico dietro che ascolta si è soli lo stesso, di fronte all’inciampo gradino di quello che a forza di mieter colori è diventato un destino.
Ma ecco finora ho parlato del genere scala, sia pure applicato alla scala di casa. Mio padre però da sempre cammina male, a salire, ad ogni scalino davvero compie un piccolo inciampo, come a prendergli il tempo, a capire dov’è. A scendere poi ha più paura ancora di quanta ne incuta un buio qualunque ad un bimbo, ha paura di cadere. Mio padre da sempre scende e sale piano le scale di casa. La cosa curiosa, so che se avesse potuto l’avrebbe evitata, è che su in alto dove c’è la luce, al terzo piano, c’è lo studio; e giù in basso nella penombra in cantina, il magazzino. E mentre ogni giorno mio padre va su nello studio, in cantina le cose invendute e non appese, restano in fondo a marcire (è umida la cantina). Come un pianista che non si compiace a registrare e poi riascoltare, un pianista che continua per sempre a suonare.
E allora piano sale le scale e va “a lavorare”(citato testuale), poi piano discende, mattina, pomeriggio, a volte la sera, estateautunninverno e primavera. I colori, l’astrazione, la geometria, sono cassa armonica, corde, legno e tastiera: Inutile stupirsi del suo rigore, della costanza, della coerenza negli anni. Sarebbe come stupirsi del fatto che Pollini continui a suonare il piano senza passare alla tromba.
Ad andar piano nelle scale ci sono anche i disegni, che certo al cospetto di tutti i colori scompaiono. Bisogna fermarsi a guardarli. Una volta mio padre mi disse, questi chilometri di righine nere, oggi si disegna veloce, chi vuoi che perda tempo anche solo a capire, che un disegno ha bisogno di ore? La cosa mi stupì, non avevo mai pensato al tempo del fare. Mio padre ha sempre fatto moltissimo, certo non meno disegni di chi disegna veloce. E allora m’è parso di capire che il suo disegnare, il suo tracciare e incrociare righine fosse simile al suo camminare, al suo salire e scendere scale, inesorabile nella disciplina del volere arrivare, con molta pazienza, ad un confine. A camminare per andare a comprare il pane, per arrivare al confine della normalità malgrado ogni malanno. A disegnare, a dipingere, per arrivare al confine dell’umanità passata e futura, malgrado ogni presente.
I disegni incrociano righe dritte. L’atto di tirare una riga con l’inchiostro su carta, è l’essenza stessa del segno. Ad incrociare righe si tessono luci e penombre. Di nuovo il pianoforte: sul piano si schiaccia un tasto, il gesto è sempre lo stesso, unico e lineare ed è la moltiplicazione armonica di questo gesto a fare la musica. Così queste linee, talvolta corte, altre volte lunghe, affacciate su di una traccia di cerchio prodotta a matita a delimitare il campo di luce, una profondità di campi tessuti e annodati in cui perdere la dimensione del foglio, del tempo, in cui perdere la dimensione di tutto.
La luce delle scale di casa ha un meccanismo a tempo, forse dura cinque minuti, fatto sta che le scale si riescono a fare, ma mettiamo che si decida di rifarle in capo a poco, può capitare che la luce ti si spenga nel bel mezzo, che si resti al buio. E allora, la notte si vedono i quadri, nel buio notturno delle scale quel che si vede meglio è il disegno. Un po’ perché è vicino all’interruttore della luce,ma certo perché tra le mille linee di nero tirate ancora si vede il bianco del foglio. E questo forse è l’effetto meno spettacolare, il fatto è che i quadri al buio assumono in grande lo stesso effetto che i disegni hanno di giorno. Ovvero ti devi fermare a guardarli e non vedi i colori, vedi soltanto le forme dei campi di colore, si vede soltanto la struttura del quadro, un po’ come senza piano si legge uno spartito.
Quand’eravamo piccoli caricavamo la macchina di valige, saremmo stati due mesi in vacanza, la si caricava anche di legni e colori a piramide, sul portapacchi sopra il tetto: si andava in montagna e mio padre avrebbe dipinto: la molla per affrontare poi tutto il resto dell’anno. Ora che non guida più, in montagna continua però ad andare e si porta le penne, l’inchiostro nero, la carta. Ecco se c’è una cosa emblematica della pittura, didascalica del suo essere artista, questo è il disegno. La linea dritta, l’essenza stessa del segno: il tasto premuto del piano.
E’ l’una di notte, la casa sta zitta, i miei sono via e io sono a Roma il 20 di maggio del 2007: salgo e discendo la scala di casa. Ho appeso e pulito ancora dei quadri, sottratti in cantina al marciume. In questa casa, malgrado ogni piano, malgrado ogni scala; pur sempre fantasma, pur sempre suonato, il suono del piano è sempre mancato.